
Il Partito Democratico nacque dalla “fusione” di Ds e Margherita, ma non è un mistero che i post-comunisti diessini pensassero di poter gestire facilmente il partito, “fagocitando” i democristiani margheritini. Ad un anno e mezzo dalla nascita il PD è guidato da un ex democristiano Franceschini, a Bologna e Firenze sono candidati a sindaco due ex democristiani-popolari, Delbono e Renzi, ambedue eletti con le primarie cittadine. Il Popolo della Sinistra sembra aver voltato le spalle ai suoi “burocrati”. Ma c’è di piu…in tutti i sondaggi riguardo ad un nuovo leader del PD, i dirigenti diessini sono in ribasso, solo Bersani resiste ma primaditutto la gente vorrebbe una “persona nuova” che non appartenga alla vecchia dirigenza.
Dall’Espresso di questa settimana alcuni brani su cui riflettere:
È l’8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l’incubo sempre più reale del crack. L’abisso: l’implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell’abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l’ex ministro dell’Agricoltura che ora è presidente dell’associazione dalemiana Red, addirittura gongola: “E ora prendiamoci la segreteria!”. Il ‘partito romano’, impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l’allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.
l’idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l’Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c’è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. “Guardate solo cosa è successo oggi”, si lamenta: “La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l’interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D’Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera”. Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. “Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più“, ammette Veltroni: “E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo”. Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: “Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta”.
Basta con i giochi di corrente. Basta con il logoramento sotterraneo. Basta con le manovre di chi voleva arrivare alle elezioni europee con Veltroni segretario per poi dargli il benservito. La mossa del leader serve a spiazzare i suoi coetanei. “Me ne vado io, ma si è chiuso il ciclo di una generazione. Con me devono andarsene tutti”. Un sacrificio personale per travolgere l’intero gruppo dirigente del Pd degli ultimi 15-20 anni, in particolare i ‘compagni di scuola’ nati alla politica nella Fgci e alle Frattocchie, cresciuti nel Pci di Enrico Berlinguer, saliti ai vertici del partito dopo la caduta del Muro, arrivati al potere negli anni Novanta, con l’Ulivo di Romano Prodi. La stirpe dei Veltroni e dei D’Alema, insomma. Al momento di lasciare, ‘zio Walter’ non trova il tempo neppure di una telefonata di cortesia per ‘zio Massimo’, l’ex amico eterno rivale: D’Alema apprende delle dimissioni di Veltroni dalle agenzie. Lo stesso accade ai ministri dello sfortunato governo ombra che nessuno informa dell’addio del leader. E al corpaccione del partito sparso per l’Italia: sindaci, presidenti di regione, presidenti di provincia, segretari regionali. La notizia dell’addio arriva in periferia con Internet o sulle agenzie. “C’è stato un totale blackout comunicativo”, impreca un segretario regionale: “Noi chiamavamo e a Roma non ci rispondevano al telefono”. Neppure un sms per avvisare che tutto era compiuto, il segno della confusione cui si è arrivati. Tutti a casa, il re è in fuga, l’esercito in rotta, le truppe sul territorio non sanno che fare.
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I capi storici, D’Alema in testa, si giocano davvero l’ultima partita. Bersani è chiamato a mettere subito sul tavolo le sue famose idee, se le ha, e la sua candidatura. Franceschini deve dimostrare di essere un leader. Enrico Letta guarda in direzione Udc. Francesco Rutelli è già con un piede fuori… Nelle ore del cupio dissolvi si capisce finalmente l’angoscia di Veltroni: il timore di finire nei libri di storia come colui che ha liquidato in meno di un anno un patrimonio di idee e passioni lungo un secolo. Il Pd è il suo sogno spezzato, la sua sfida interrotta, come si intitolavano i volumi che dava alle stampe negli anni della lunga corsa verso la leadership. Ma il dramma è appena all’inizio. Come in un’oscura maledizione, in soli 12 mesi il Pd ha consumato progetti, speranze, ambizioni, leader: prima Romano Prodi, poi Riccardo Illy, Renato Soru, infine Walter Veltroni. Ora rischia di divorare se stesso. E quel che resta della sinistra italiana
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pasticcio-democratico/2067749//2
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